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L’insufficienza respiratoria, successiva alla polmonite interstiziale, che caratterizza il decorso del COVID-19, può richiedere la ventilazione meccanica e il ricovero in rianimazione (G. Grasselli, A. Zangrillo, A. Zanella et al., JAMA 323:1574-81, 2020), specialmente nei pazienti ipertesi (circa la metà dei casi), diabetici (17%) e con malattie cardiovascolari di varia natura (21%). Quando queste alterazioni si trovano riunite fra di loro, specialmente nei pazienti anziani, la mortalità aumenta in modo esponenziale e rende conto della gravità della situazione. In una prospettiva più generale si può dire che il virus SARS-CoV2 colpisce più frequentemente e più gravemente i soggetti affetti da sindrome metabolica, sotto il cui nome le tre manifestazioni patologiche citate finiscono con l’essere direttamente o indirettamente ricomprese.
Quale legame tra obesità e COVID-19?
È curioso che la manifestazione morbosa che più frequentemente è causa di sindrome metabolica, e cioè l’obesità, non sia stata indicata come il comune denominatore di questa drammatica associazione. Di fatto in Italia l’obesità non è ancora una malattia, o meglio è malattia sui libri ma non nella realtà clinica, e così nelle rilevazioni dei nostri ospedali spesso la diagnosi di obesità viene a mancare.
Alcuni studi recenti (D. Moriconi, S. Masi, E. Rebelos et al., Obes Res ClinPract 14:205-9,2020; E. Rebelos, D. Moriconi, A. Virdis et al., Metabolism 108:154247, 2020) hanno chiaramente dimostrato che essere obesi comporta un significativo aumento del rischio di ammalare di COVID-19 in forma grave.
Questo fatto è ormai universalmente accettato, tanto che l’algoritmo di calcolo del rischio COVID elaborato e pubblicato sul British Medical Journal (BMJ 371: m3731, 2020) dal gruppo di lavoro inglese coordinato dall’Università di Oxford include il BMI (Body Mass Index, indice di massa corporea è un valore assoluto che si ottiene dividendo il peso in Kg per la seconda potenza dell’altezza espressa in metri. Esso è correlato in genere all’ampiezza dei depositi adiposi ed è indice di obesità se superiore a 30 e di obesità grave se superiore a 35.) come variabile direttamente correlata: più alto il BMI, più alto il rischio COVID. Il perché risiede nel fatto, noto da tempo immemorabile, che l’obesità favorisce le infezioni e anche le forme influenzali, attraverso diversi meccanismi neuro-endocrini che sono tipici di una risposta infiammatoria cronica del tessuto adiposo. Nell’obeso, i livelli di leptina sono aumentati e quelli di adiponectina diminuiti; inoltre vi è un incremento delle citochine pro-infiammatorie, e tutto questo conduce ad una significativa diminuzione della risposta immunitaria. Così, opporsi all’infezione virale è più difficile, e anche sviluppare una buona risposta anticorpale.
Nel caso specifico del COVID-19, un ulteriore elemento negativo è dato dall’elevata espressione nel tessuto adiposo del recettore per l’enzima 2 di conversione dell’angiotensina, un dimostrato punto d’attacco per la penetrazione nelle cellule del Coronavirus SARS-CoV2 T. Bombardini, E. Picano, Can J Cardiol 36:784 e1-2, 2020.Così un BMI maggiore di 30 deve essere considerato un fattore di rischio per l’infezione COVID, ma ciò non significa che le cose debbano necessariamente andare male.
È un dato di fatto, più volte dimostrato in relazione a diversi tipi d’infezione, che essere obesi fa ammalare più facilmente, ma non implica una mortalità più elevata a meno che non siano presenti le complicanze dell’obesità come l’ipertensione, il diabete e le malattie cardio-vascolari: è il paradosso dell’obesità, un elemento di cui tenere assolutamente conto perché è possibile migliorare le probabilità di superare l’infezione con opportune misure terapeutiche.
Meccanismi della malattia Covid 19 nel paziente obeso